Negli ultimi dieci anni ho visitato quasi tutti i paesi sull’altra sponda del Mediterraneo. Sono stato in Marocco, in Algeria, in Tunisia più volte, in Egitto, in Siria, in Giordania e in Libano, oltre che in Turchia, dove però si respira aria più europea che in molte città d’Europa. Tutte le volte, senza nessuna eccezione, ho vissuto esperienze che mi hanno segnato nel cuore, ho incontrato persone fantastiche e visto luoghi magnifici. Ho ricordi incredibili che porto sempre con me.
Dell’Egitto ricordo la magia del grande mare di sabbia. Il deserto nero, il deserto bianco, poi le dune sterminate e quel senso di appartenenza a quel luogo, come se un legame ancestrale ci unisse. Ricordo Khaled, la nostra guida, che la sera prima di rientrare si appartò in lacrime per poi spiegarci che ogni volta lasciare il deserto era per lui come lasciare padre e madre. Ricordo quella piazza Tahrir teatro dei recenti scontri e le vie del Cairo affollate e confuse. Del Marocco ho davanti a me il rosso dell’Erg Chebbi e la meraviglia di potersi parlare sottovoce a cento metri di distanza. E la piazza Jamal el Fna a Marrakech, piena di fumi, odori, luci e colori. Nel souk passai un giorno intero, per andarmene solo dopo il tramonto, incantato dalle scintille proiettate verso il cielo scuro dai fabbri che ancora lavoravano il ferro. Ricordo di aver comprato un piccolo berretto da una donna, fatto a mano. Assieme a un amico contrattammo il prezzo fino all’equivalente di 5 o 6 euro. Quella sera al ristorante un cameriere ci disse che avevamo fatto un buon affare: la donna che ce lo aveva venduto aveva probabilmente lavorato almeno due giorni per farlo. Fu una bella lezione.
Con i libanesi ho condiviso tre giorni di traghetto verso la Siria. Gente allegra, con la quale stringere amicizia è un attimo. Ero con due amici e scendemmo con una quantità di numeri di telefono e di contatti da andare a trovare. Ma soprattutto, fatti poche centinaia di metri in suolo siriano, ci fermammo per comprare della frutta e lì, vedendoci, un pasticciere ci venne incontro offrendoci una scatola dei suoi dolci, in segno di benvenuto nel suo Paese. Esattamente quel che succede ai siriani che arrivano da noi… Ma i ricordi più belli sono quelli della Tunisia. A Kairouan, città santa, ricordo di aver passato un’intera giornata giocando a scacchi con alcuni ragazzi al mercato. Più a sud, uscendo dal deserto dopo due giorni di moto, sotto un sole cocente, col sudore che era arrivato a incrostare di sale il giubbotto di pelle, ci fermammo sotto un albero a riposare. Ho ancora le foto della ragazzina che vedendoci ci portò dell’acqua senza nemmeno che gliela avessimo chiesta. Poco dopo ci raggiunsero i genitori i quali, rammaricati per non poterci invitare a pranzo avendo già altri ospiti, chiamarono lo zio perché ci accogliesse lui. Restammo e per tutto il tempo fu un via vai di amici e parenti che venivano a presentarsi, lieti di conoscerci e di raccontarci qualcosa di loro. Eravamo a Tamezret, se ben ricordo. Non lontano da lì qualche giorno prima, avevamo bevuto un te e mangiato qualcosa in un piccolo bar, in un paese di pastori dove le donne lavoravano tappeti. Non essendoci molti avventori i due gestori si sedettero con noi a chiacchierare. Ci raccontarono ogni cosa delle usanze del luogo, curiosi di sapere altrettanto di noi. Dopo quattro ore ce ne andammo ma non ci fu verso di pagare il conto: gli amici sono amici, non pagano, tanto più se sono forestieri. Più a ovest, a Tozeur, c’è ancora l’amico Neji. Ha vissuto per vent’anni ad Arezzo e parla italiano con un fantastico accento toscano. È ritornato a casa dopo una crisi depressiva per aprire un bel negozietto di souvenir. Da lui ho comprato bellissimi tappeti che ancora ho in casa e bevuto (di nascosto!) l’introvabile birra che conserva per i suoi ospiti speciali.
Potrei raccontare ancora decine di aneddoti e riempire pagine di ricordi, ma non è per annoiare che ho cominciato a scrivere queste righe. È per dire, per gridare che non posso sopportare che chi mi rappresenta non abbia il coraggio di prendere una posizione di condanna netta e decisa nei confronti di chi ha vissuto per anni sulla pelle di queste genti che hanno un cuore grande come la cultura millenaria che si portano dentro. È per gridare la mia preghiera che il vento di rivolta che ha preso a soffiare sull’altra sponda del mare nostro possa spazzare via dittature e integralismi e dare a questa gente la pace che merita. Temo non sarà così facile, ma al tempo stesso mi riempie di una rabbia enorme l'imbecille ipocrisia di chi quei vari dittatori li ha sostenuti e addirittura accolti a braccia aperte. E vorrei che in questo Paese, che è anche il mio Paese, ritrovassimo l’orgoglio di portare avanti la bandiera dell’onestà, l’orgoglio di essere un popolo generoso, pronto a dare una mano al prossimo anche a costo di dover fare qualche sacrificio, ammainando definitivamente l’insegna dell’opportunismo, dell’utilitarismo di piccolo cabotaggio e dell’affarismo interessato che chi ci governa (ahimé, non solo!) pretenderebbe di mettere sopra i nostri palazzi. Non pretendo una rivoluzione, ma che almeno nei vostri cuori si muova la rabbia e si faccia strada l’orgoglio, questo sì. E il coraggio di alzare la voce!
Dell’Egitto ricordo la magia del grande mare di sabbia. Il deserto nero, il deserto bianco, poi le dune sterminate e quel senso di appartenenza a quel luogo, come se un legame ancestrale ci unisse. Ricordo Khaled, la nostra guida, che la sera prima di rientrare si appartò in lacrime per poi spiegarci che ogni volta lasciare il deserto era per lui come lasciare padre e madre. Ricordo quella piazza Tahrir teatro dei recenti scontri e le vie del Cairo affollate e confuse. Del Marocco ho davanti a me il rosso dell’Erg Chebbi e la meraviglia di potersi parlare sottovoce a cento metri di distanza. E la piazza Jamal el Fna a Marrakech, piena di fumi, odori, luci e colori. Nel souk passai un giorno intero, per andarmene solo dopo il tramonto, incantato dalle scintille proiettate verso il cielo scuro dai fabbri che ancora lavoravano il ferro. Ricordo di aver comprato un piccolo berretto da una donna, fatto a mano. Assieme a un amico contrattammo il prezzo fino all’equivalente di 5 o 6 euro. Quella sera al ristorante un cameriere ci disse che avevamo fatto un buon affare: la donna che ce lo aveva venduto aveva probabilmente lavorato almeno due giorni per farlo. Fu una bella lezione.
Con i libanesi ho condiviso tre giorni di traghetto verso la Siria. Gente allegra, con la quale stringere amicizia è un attimo. Ero con due amici e scendemmo con una quantità di numeri di telefono e di contatti da andare a trovare. Ma soprattutto, fatti poche centinaia di metri in suolo siriano, ci fermammo per comprare della frutta e lì, vedendoci, un pasticciere ci venne incontro offrendoci una scatola dei suoi dolci, in segno di benvenuto nel suo Paese. Esattamente quel che succede ai siriani che arrivano da noi… Ma i ricordi più belli sono quelli della Tunisia. A Kairouan, città santa, ricordo di aver passato un’intera giornata giocando a scacchi con alcuni ragazzi al mercato. Più a sud, uscendo dal deserto dopo due giorni di moto, sotto un sole cocente, col sudore che era arrivato a incrostare di sale il giubbotto di pelle, ci fermammo sotto un albero a riposare. Ho ancora le foto della ragazzina che vedendoci ci portò dell’acqua senza nemmeno che gliela avessimo chiesta. Poco dopo ci raggiunsero i genitori i quali, rammaricati per non poterci invitare a pranzo avendo già altri ospiti, chiamarono lo zio perché ci accogliesse lui. Restammo e per tutto il tempo fu un via vai di amici e parenti che venivano a presentarsi, lieti di conoscerci e di raccontarci qualcosa di loro. Eravamo a Tamezret, se ben ricordo. Non lontano da lì qualche giorno prima, avevamo bevuto un te e mangiato qualcosa in un piccolo bar, in un paese di pastori dove le donne lavoravano tappeti. Non essendoci molti avventori i due gestori si sedettero con noi a chiacchierare. Ci raccontarono ogni cosa delle usanze del luogo, curiosi di sapere altrettanto di noi. Dopo quattro ore ce ne andammo ma non ci fu verso di pagare il conto: gli amici sono amici, non pagano, tanto più se sono forestieri. Più a ovest, a Tozeur, c’è ancora l’amico Neji. Ha vissuto per vent’anni ad Arezzo e parla italiano con un fantastico accento toscano. È ritornato a casa dopo una crisi depressiva per aprire un bel negozietto di souvenir. Da lui ho comprato bellissimi tappeti che ancora ho in casa e bevuto (di nascosto!) l’introvabile birra che conserva per i suoi ospiti speciali.
Potrei raccontare ancora decine di aneddoti e riempire pagine di ricordi, ma non è per annoiare che ho cominciato a scrivere queste righe. È per dire, per gridare che non posso sopportare che chi mi rappresenta non abbia il coraggio di prendere una posizione di condanna netta e decisa nei confronti di chi ha vissuto per anni sulla pelle di queste genti che hanno un cuore grande come la cultura millenaria che si portano dentro. È per gridare la mia preghiera che il vento di rivolta che ha preso a soffiare sull’altra sponda del mare nostro possa spazzare via dittature e integralismi e dare a questa gente la pace che merita. Temo non sarà così facile, ma al tempo stesso mi riempie di una rabbia enorme l'imbecille ipocrisia di chi quei vari dittatori li ha sostenuti e addirittura accolti a braccia aperte. E vorrei che in questo Paese, che è anche il mio Paese, ritrovassimo l’orgoglio di portare avanti la bandiera dell’onestà, l’orgoglio di essere un popolo generoso, pronto a dare una mano al prossimo anche a costo di dover fare qualche sacrificio, ammainando definitivamente l’insegna dell’opportunismo, dell’utilitarismo di piccolo cabotaggio e dell’affarismo interessato che chi ci governa (ahimé, non solo!) pretenderebbe di mettere sopra i nostri palazzi. Non pretendo una rivoluzione, ma che almeno nei vostri cuori si muova la rabbia e si faccia strada l’orgoglio, questo sì. E il coraggio di alzare la voce!