lunedì 4 luglio 2011

Pellegrinaggi

Mi sono spostato qui: www.gaetanoievolella.it. 
Seguitemi.
GI

lunedì 23 maggio 2011

sabato 26 marzo 2011

Scampia, Italia.

Nello scorso mese di novembre, assieme all’amico Andrea Brera che lì ha realizzato un suo bellissimo reportage fotografico, sono stato a Scampia.
Per curiosità e perché mi piace l’idea che per parlare delle cose bisogna prima toccarle con mano. Avevo infatti in programma di realizzare uno spettacolo teatrale che parlasse del vivere in questo angolo d’Italia del quale il resto d’Italia ha deciso di fare a meno. L’idea mi era venuta leggendo un libro passatomi proprio da Andrea: “Manuale del perfetto venditore di droga. Romanzo con business plan.”, di Alessandro Esposito. A farci da Cicerone tra le Vele, le Case dei puffi, il campo Rom sotto l’asse mediano, l’opera Don Guanella, il parco, il mercato, la scuola occupata e i palazzi anonimi c’era Ciro. Ciro, che di cognome fa Corona, lavora per un’associazione che tra le varie cose organizza percorsi di legalità per i ragazzini che vivono a Scampia. In parole semplici lui e chi lavora con lui si prendono i ragazzi da casa, li seguono nel loro iter scolastico e cercano di insegnare loro che esiste anche un modo onesto per vivere e guadagnarsi il pane. In un posto dove fin da bambino t’insegnano che se non fotti il prossimo sei un coglione, quella di Ciro e dei suoi mi è sembrata un’impresa titanica, degna di tutta la mia stima. Così, tornati a casa, io e Andrea abbiamo raccolto un po’ di amici sui quali sapevamo di poter contare e, piano piano, abbiamo cominciato a lavorare all’idea di raccontare a Milano che, ottocento chilometri più a sud, in una terra dove tutti pensano che ci sia solo droga e delinquenza, vivono alcune decine di migliaia di persone che cercano di fare una vita normale. E in mezzo a queste persone ce ne sono centinaia e centinaia che si battono perché la propria terra sia un posto migliore dove stare. E la terra di queste persone, che per noi così lontani si chiama Scampia, per loro si chiama Italia.
Gli amici con cui ci siamo messi al lavoro si chiamano Andrea Tammaro, Gabriele Villa, Cesare Giuzzi, e via via a loro si sono aggiunti altri amici e persone che abbiamo incontrato lungo il percorso. Così, quello che doveva essere un piccolo tributo si è trasformato pian piano in un evento la cui portata è andata ben oltre le nostre aspettative: un mese intero di incontri, mostre, presentazioni, concerti, spettacoli e proiezioni, “per raccontare l’altra faccia di Gomorra: la Scampia che resiste e non si arrende”. A Milano, perché Milano è sempre più terra di conquista da parte della criminalità, e non arrendersi a Scampia, difendere il territorio, diventa allora un modo per difendere Milano, così come Roma, Palermo, Bologna, Firenze, Venezia, Torino e l’Italia intera. Perché ogni pezzo di terra lasciato al nemico è una roccaforte in più da smantellare, una ferita in più da medicare prima che diventi cancrena.
Ai molti appuntamenti, il cui lungo elenco è consultabile sul sito che abbiamo creato, all’indirizzo www.scampiaitalia.it, parteciperanno tante persone che hanno dato la loro disponibilità, a cominciare da Alessandro Esposito, autore del libro da cui è partito il tutto, il quale col suo spirito intraprendente è entrato a pieno titolo nel gruppo degli organizzatori. E con lui Ciro Corona, che assieme a Don Aniello Manganiello e a Daniele Sanzone degli A67 (che apriranno l’evento col loro concerto), verrà a presentare il progetto Scampia Trip. E ancora Sergio Nazzaro, Davide Cerullo, Fabio Abati, Igor Greganti, Pasquale Passaretti, Bruno Bigoni e Valerio Spada, che porteranno il proprio contributo, chi come fotografo, chi come scrittore, giornalista, documentarista, attore. E Giovanni Pelloso, critico, fotografo e giornalista, che condurrà un bellissimo incontro con Valerio Spada e Andrea Brera, autori entrambi di reportage in terra di camorra, alla scoperta della loro esperienza diretta nel rapporto con le persone, i luoghi, le sensazioni. E ancora la Pina, di Radio DJ, la quale con entusiasmo ha accettato di condurre una serata dedicata al fenomeno neomelodico, assieme ad Armando Sanchez, di Radio Studio Emme, e Federico Vacalebre, de “Il Mattino”. E tutti gli ospiti di primissimo piano che animeranno l’incontro al Circolo della Stampa, nel quale si affronteranno i problemi del giornalismo d’inchiesta di fronte alla criminalità: Roberto Bichi, presidente della 1° sezione civile del Tribunale di Milano, l’avvocato Raffaele Della Valle, Giulio Cavalli, coraggiosissimo attore, e i giornalisti Giovanni Negri, Alberto Spampinato, Gianni Barbacetto, Renzo Magosso e Susanna Ambivero. E Alessio Galbiati e Roberto Rippa, di Rapporto Confidenziale, i quali hanno dato il loro contributo con una rassegna cinematografica ricchissima di documenti di assoluta qualità e di curiosità da non perdere. E Paola Savoldi, che assieme a Daniela De Leo ha organizzato il seminario di apertura sull’urbanistica delle periferie. E Rebecca Travaglia, che ha curato la grafica del materiale promozionale. E Annalisa Corbo e Rossella Savino, che hanno tenuto i rapporti con la stampa. E ancora Melina Scalise, di Spazio Tadini, Deborah De Bernardi e tutto lo staff di Areapergolesi/Maison Fou, lo staff di Palazzo Granaio, del Bitte, dello Spazio Frida, dello Spazio A, il Susp, la Virgolaz, i DescargaLab e i gruppi di Baggio e del Giambellino e tutti gli altri che qui non posso citare per questioni di spazio ma che hanno contribuito alla realizzazione di questo bellissimo evento, ai quali per questo va tutta la mia gratitudine.
Da lunedì prossimo la passione di tutte queste persone è a vostra disposizione: approfittatene, perché sarebbe un peccato non farlo. E perché sono sicuro che ne uscirete anche voi arricchiti, come è successo a me.
A presto!

Gaetano

P.S.: Ah, dimenticavo! Lo spettacolo teatrale di cui parlo all’inizio l’abbiamo fatto. È in scena anch’esso nell’ambito dell’evento, dal 14 al 17 aprile, presso un piccolo teatro milanese dove spesso ci piace presentare i nostri lavori. Trovate qui tutte le info: http://www.scampiaitalia.it/128/benedetto-colui-che/.

sabato 5 marzo 2011

Chamaco



Qualche anno fa, durante un viaggio a Cuba, raccolsi in una libreria di Pinar del Rio alcuni libri di autori locali. 
Uno, in particolare, mi colpì: Chamaco, di Abel Gonzalez Melo. Tornato in Italia decisi di tradurre il testo con l’idea di pubblicarlo. Scrissi all’editore cubano senza credere più di tanto nella possibilità di una risposta ma, a dispetto della mia scarsa fiducia, solo un paio di giorni dopo avevo già le informazioni richieste: Abel vive a Madrid, torna saltuariamente a l’Avana, puoi contattarlo così e così. Gli scrissi e poche settimane dopo, assieme all’amico René - argentino, dunque madrelingua - ero a Madrid a discutere il progetto.
Con Abel abbiamo lavorato due giorni a tempo pieno, per essere sicuri di cogliere il senso di ogni frase, le ragioni di ogni azione, il colore di ogni atmosfera. E poi ancora per altri due mesi ci siamo scambiati opinioni e punti di vista, verificando di non tradire il significato di ogni singola parola tradotta. Oggi, a distanza di quasi tre anni, questo lavoro meticoloso e artigianale è diventato un libro. Di più: è il primo libro di un progetto editoriale che ho seguito personalmente, con il preziosissimo aiuto di René e di Abel. Questo progetto si chiama Hackmuth e ha per logo un cagnolino che ride (a voi scoprire il perché!). Per una volta dunque approfitto di questo spazio per parlare di un libro della cui esistenza, almeno in italia, mi sento in parte artefice. Lo faccio tramite la prefazione che ho scritto.
Se qualcuno di voi volesse acquistarne una copia, consiglio di scrivermi, in quanto al momento solo poche librerie lo hanno in vendita. Le spese di spedizione sono a mio carico, ovviamente. Se invece avete un amico libraio, consigliategli di mettersi in contatto con me per averne delle copie in conto vendita! In ogni caso, buona lettura.


Perché Chamaco

Sono arrivato a Chamaco per puro caso, durante un viaggio solitario a Cuba, in cerca di qualcosa di cubano che non fossero le grosse auto americane degli anni cinquanta. In una libreria di Pinar del Rio, particolarmente ben tenuta e ordinata, ho fatto incetta di alcuni libelli dalla grafica vivace. Testi teatrali e altre opere di giovani autori cubani, fra cui Chamaco. Non conoscevo ovviamente né l’autore né l’opera, né, per la verità, avevo mai letto niente di quanto prodotto dalla letteratura dell’isola. Ne fui impressionato subito. Per la freschezza del linguaggio, per la schiettezza dei caratteri, per i tratti duri e marginali dei personaggi e al tempo stesso per la loro tragica purezza.
Chamaco è un opera dove non ci sono buoni e cattivi, ma solo uomini e donne, esseri umani di fronte alla vita. Come nelle opere di Eschilo e Sofocle, non è l’attesa di scoprire come stanno le cose a tenerci incollati alle pagine - sappiamo già tutto - ma il desiderio di veder dispiegarsi la tragedia umana che intuiamo dietro i tratti di ogni personaggio, fin dal primo incontro con loro. Ed è una tragedia mai banale, tantomeno esplicita, sempre sofferta. E questo rende Chamaco, che in sé è un’opera terribilmente cubana - nel senso che nella realtà di Cuba affonda le radici nella maniera più profonda - un’opera di respiro internazionale. Come se il vento che soffia fra le fronde dei rami del Parco Centrale de L’Avana, correndo lungo il Prado fino al Malecon, portasse l’aria di questa città per il mondo, diffondendone gli odori e le storie. Se L’Avana è il contesto - essenziale - perché si scatenino gli eventi, le emozioni e i conflitti che ne scaturiscono sono di ogni luogo. E le relazioni fra gli uomini che le vivono, uomini e donne che incarnano la Cuba più miserabile e reale - diremmo, quotidiana - sono anch’esse universali. 
Nascono a Cuba, a L’Avana, ma sono di tutto il mondo. E, come scrive Carlos Celdrán nella sua prefazione all’edizione cubana di Chamaco, sono descritte “con una sensibilità, un’immediatezza e una sintesi assolutamente contemporanee”. Universali, aggiungiamo. Per questo Chamaco, che è un testo che nasce per il teatro, riesce ad essere anche romanzo e racconto e ancor di più, per le immagini evocate, per l’intreccio e per il “montaggio” delle scene, cinema. Nella sua versione più nobile: quella che mette lo strumento narrativo al servizio della narrazione, esaltandone i contenuti ma sempre con discrezione, senza mai arrivare a coprire le parole, i fatti, con gli effetti
speciali.
Per questo, credo, e per altri motivi che i lettori - spero molti - vorranno cogliere, Chamaco meritava di essere tradotto e portato in Italia. 
Così, con inaspettata sempicità, attraverso l’editore cubano ho preso contatto con Abel, che oggi vive a Madrid per lunghi periodi dell’anno, e ho chiesto il suo assenso.
Abbiamo lavorato insieme per alcuni giorni, con lui e con l’amico René Fourés, e poi a lungo a distanza, per arrivare a una traduzione che fosse quanto più possibile fedele all’originale, che ne rispettasse le atmosfere e talora anche il senso letterale dei termini. Un lavoro di cesello reso possibile anche dall’enorme passione con la quale Abel si dedica alle proprie “creature”, fra le quali Chamaco, in quanto primogenita, è senz’altro la prediletta. 

CHAMACO
di Abel González Melo
trad. di Gaetano Ievolella e René Fourés
Hackmuth | Libri da leggere
Edizioni Argonautiche
ISBN 978-88-96843-07-9


96 pagine, 9€

lunedì 21 febbraio 2011

La rabbia e l’orgoglio

Negli ultimi dieci anni ho visitato quasi tutti i paesi sull’altra sponda del Mediterraneo. Sono stato in Marocco, in Algeria, in Tunisia più volte, in Egitto, in Siria, in Giordania e in Libano, oltre che in Turchia, dove però si respira aria più europea che in molte città d’Europa. Tutte le volte, senza nessuna eccezione, ho vissuto esperienze che mi hanno segnato nel cuore, ho incontrato persone fantastiche e visto luoghi magnifici. Ho ricordi incredibili che porto sempre con me.
Dell’Egitto ricordo la magia del grande mare di sabbia. Il deserto nero, il deserto bianco, poi le dune sterminate e quel senso di appartenenza a quel luogo, come se un legame ancestrale ci unisse. Ricordo Khaled, la nostra guida, che la sera prima di rientrare si appartò in lacrime per poi spiegarci che ogni volta lasciare il deserto era per lui come lasciare padre e madre. Ricordo quella piazza Tahrir teatro dei recenti scontri e le vie del Cairo affollate e confuse. Del Marocco ho davanti a me il rosso dell’Erg Chebbi e la meraviglia di potersi parlare sottovoce a cento metri di distanza. E la piazza Jamal el Fna a Marrakech, piena di fumi, odori, luci e colori. Nel souk passai un giorno intero, per andarmene solo dopo il tramonto, incantato dalle scintille proiettate verso il cielo scuro dai fabbri che ancora lavoravano il ferro. Ricordo di aver comprato un piccolo berretto da una donna, fatto a mano. Assieme a un amico contrattammo il prezzo fino all’equivalente di 5 o 6 euro. Quella sera al ristorante un cameriere ci disse che avevamo fatto un buon affare: la donna che ce lo aveva venduto aveva probabilmente lavorato almeno due giorni per farlo. Fu una bella lezione.
Con i libanesi ho condiviso tre giorni di traghetto verso la Siria. Gente allegra, con la quale stringere amicizia è un attimo. Ero con due amici e scendemmo con una quantità di numeri di telefono e di contatti da andare a trovare. Ma soprattutto, fatti poche centinaia di metri in suolo siriano, ci fermammo per comprare della frutta e lì, vedendoci, un pasticciere ci venne incontro offrendoci una scatola dei suoi dolci, in segno di benvenuto nel suo Paese. Esattamente quel che succede ai siriani che arrivano da noi… Ma i ricordi più belli sono quelli della Tunisia. A Kairouan, città santa, ricordo di aver passato un’intera giornata giocando a scacchi con alcuni ragazzi al mercato. Più a sud, uscendo dal deserto dopo due giorni di moto, sotto un sole cocente, col sudore che era arrivato a incrostare di sale il giubbotto di pelle, ci fermammo sotto un albero a riposare. Ho ancora le foto della ragazzina che vedendoci ci portò dell’acqua senza nemmeno che gliela avessimo chiesta. Poco dopo ci raggiunsero i genitori i quali, rammaricati per non poterci invitare a pranzo avendo già altri ospiti, chiamarono lo zio perché ci accogliesse lui. Restammo e per tutto il tempo fu un via vai di amici e parenti che venivano a presentarsi, lieti di conoscerci e di raccontarci qualcosa di loro. Eravamo a Tamezret, se ben ricordo. Non lontano da lì qualche giorno prima, avevamo bevuto un te e mangiato qualcosa in un piccolo bar, in un paese di pastori dove le donne lavoravano tappeti. Non essendoci molti avventori i due gestori si sedettero con noi a chiacchierare. Ci raccontarono ogni cosa delle usanze del luogo, curiosi di sapere altrettanto di noi. Dopo quattro ore ce ne andammo ma non ci fu verso di pagare il conto: gli amici sono amici, non pagano, tanto più se sono forestieri. Più a ovest, a Tozeur, c’è ancora l’amico Neji. Ha vissuto per vent’anni ad Arezzo e parla italiano con un fantastico accento toscano. È ritornato a casa dopo una crisi depressiva per aprire un bel negozietto di souvenir. Da lui ho comprato bellissimi tappeti che ancora ho in casa e bevuto (di nascosto!) l’introvabile birra che conserva per i suoi ospiti speciali.
Potrei raccontare ancora decine di aneddoti e riempire pagine di ricordi, ma non è per annoiare che ho cominciato a scrivere queste righe. È per dire, per gridare che non posso sopportare che chi mi rappresenta non abbia il coraggio di prendere una posizione di condanna netta e decisa nei confronti di chi ha vissuto per anni sulla pelle di queste genti che hanno un cuore grande come la cultura millenaria che si portano dentro. È per gridare la mia preghiera che il vento di rivolta che ha preso a soffiare sull’altra sponda del mare nostro possa spazzare via dittature e integralismi e dare a questa gente la pace che merita. Temo non sarà così facile, ma al tempo stesso mi riempie di una rabbia enorme l'imbecille ipocrisia di chi quei vari dittatori li ha sostenuti e addirittura accolti a braccia aperte. E vorrei che in questo Paese, che è anche il mio Paese, ritrovassimo l’orgoglio di portare avanti la bandiera dell’onestà, l’orgoglio di essere un popolo generoso, pronto a dare una mano al prossimo anche a costo di dover fare qualche sacrificio, ammainando definitivamente l’insegna dell’opportunismo, dell’utilitarismo di piccolo cabotaggio e dell’affarismo interessato che chi ci governa (ahimé, non solo!) pretenderebbe di mettere sopra i nostri palazzi. Non pretendo una rivoluzione, ma che almeno nei vostri cuori si muova la rabbia e si faccia strada l’orgoglio, questo sì. E il coraggio di alzare la voce!

mercoledì 2 febbraio 2011

Continuare a sognare


In un piccolo cinema di periferia, con le sedie scomode che quando finisce il film hai mal di schiena, al prezzo di quattro euro più quattro per la tessera - perché è roba per tesserati! - può anche capitare di assistere a una magia. È così che succede se sullo schermo, che pure è piazzato un po’ troppo in alto perché lo si possa guardare comodi, s’inseguono uno a uno i sogni de “L’illusionista” di Sylvain Chomet.
Tratto da una sceneggiatura scritta da Jacques Tati poco prima della sua morte (e per questo mai diventata film), è la storia di monsieur Tatischeff (il nome completo di Tati era appunto Tatischeff, e del suo autore il personaggio ha anche le sembianze), illusionista, la cui carriera si scontra col cambiare dei tempi. Di fronte a un pubblico che preferisce i concerti rock alla sua arte, Tatischeff abbandona Parigi per attraversare la Manica. Anche Londra gli si rivela presto ostile, così, alla ricerca di un luogo che ancora apprezzi le sue abilità, Tatischeff si avventura più a nord verso la Scozia, dove nelle bettole di paese ancora si fa festa. Qui, in una piccola locanda dove si trova a lavorare, conosce una giovane donna di servizio, la quale resta affascinata dai suoi prodigi. A lei Tatischeff regala un paio di scarpe nuove con i pochi soldi appena guadagnati. Per gratitudine o per mancanza di alternative - per affetto nei sogni di Tatischeff - la giovane ragazza lo segue quando egli decide di trasferirsi a Edimburgo in cerca di nuove occasioni di lavoro. Qui i due affittano un piccolo appartamento in un residence sgangherato nel quale vivono artisti e altri personaggi più o meno strampalati. Lei cucinerà per lui e terrà in ordine la casa, lui le comprerà ogni giorno qualcosa di bello, secondo i suoi desideri. Lui dormirà sul divano, lei nella stanza più bella. Lui si prenderà cura di lei, lei di lui.
Ma le cose non andranno bene che per poco tempo: Tatischeff, tanto buono quanto ingenuo, tra raggiri e profittatori, rimarrà senza un soldo e, infine, perderà anche la sua ammiratrice, che troverà l’amore altrove. Rimarrà solo, così sulla pellicola come nelle sale, senza uno spettatore. Già perché il film è uscito nel 2010, ha avuto questo premio e quell’altro, ma in Italia, al momento, considerando anche il sottoscritto, ad averlo visto siamo forse in mille. “Che bella giornata”, il film di Checco Zalone, ha registrato incassi per oltre dieci milioni di euro nel solo giorno di uscita, e un numero di spettatori inarrivabile. Non si dovrebbero mai fare paragoni, ma per una volta voglio pensare che se in questo paese venisse meno la voglia di ridere – che da ridere c’è veramente poco – e si rifacesse strada quella voglia di sognare che fu del periodo in cui Tati scrisse “L’illusionista”… beh, questo paese potrebbe forse riguadagnarsi quella maiuscola in testa di cui ormai non tiene più nemmeno a fregiarsi.
Nel frattempo qualcuno altrove si è accorto che le tavole di Chomet sono un assoluto capolavoro, così il film correrà per l’Oscar tra i film d’animazione. Vincerà, così lo vedranno finalmente in molti. Oggi funziona così.

lunedì 24 gennaio 2011

Qualunquemente Cetto

Quantunquemente Antonio Albanese resti geniale nella costruzione di un personaggio surreale nelle intenzioni quanto persino iperrealista nei fatti, Cetto non ci convince: il film strappa le risate migliori quando riesce a mettere a nudo la follia di una certa politica che rinuncia in assoluta trasparenza a farsi portavoce di un qualsivoglia modello ideale per incarnare invece il peggio della società che rappresenta, ma non va oltre.

Cetto è il non plus ultra del politically uncorrect, ed è genuinamente onesto nell’esserlo: proprio come quella politica di cui è caricatura, ciecamente convinto di essere nel giusto, mette da parte ogni remora di ordine etico o morale per far passare l’idea tutta nuova che corruzione, malaffare, latrocinio e interesse privato possono trovare la loro giustificazione nella pratica comune e nel consenso altrui, poco importa come lo si sia ottenuto. Sulla scia del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, corrompere il prossimo diventa lo strumento migliore per essere l’eletto fra i corrotti, e avere avversari corrotti la giustificazione migliore per essere più corrotti di loro, fino a proclamare definitivamente che la corruzione è cosa buona e giusta e che chi non la pratica in pubblico senz’altro la pratica in privato, di nascosto, ed è dunque peggiore egli stesso di quanto non dica degli altri.
Memorabili sono i suo slogan: “Prima voti, poi rifletti”, “I have no dream, ma mi piace u pilu!”. Memorabili i suoi comizi (“Mi hanno chiesto cosa voglio fare per i poveri e i bisognosi: una benemerita minchia!”) e le sue lezioni di educazione sentimentale al figlio Melo, costretto a lasciare la fidanzata perché di misure assai poco generose. Ma tutto questo l’avevamo già visto a Zelig!

Dove il film manca completamente è sull’altro fronte, quello del mondo intorno a Cetto: come è possibile che un simile personaggio faccia proseliti e vinca le elezioni? Qual è la radice del successo di questa classe politica che incarna il peggio della Nazione che rappresenta erigendolo a sistema? Non basta aggrapparsi al broglio in cabina, al parentame e al clientelismo: fosse solo questo non ci sarebbe bisogno di un film, è roba vecchia. C’è di più, là fuori: c’è un mondo che vede sovvertiti giorno dopo giorno i principi stessi su cui si è costituita la civiltà moderna, in un contesto di pressoché generale noncuranza. E nessuno che sappia spiegarselo! Avrebbe potuto farlo lui, Cetto: spiegarci com’è che certi meccanismi fanno breccia nel cuore di un comune cittadino e farci così sentire il peso, uscendo dalla sala, di essere stati anche noi una volta nella vita fra gli elettori di un Laqualunque qualsiasi. Avrebbe potuto, ma forse avrebbe dovuto avere accanto qualcuno, mentre attorno a lui c’è il nulla.
In un solo momento la regia di Giulio Manfredonia, latitante per il 90% del film, notaio per la restante parte, si accorge che questo è il tema: quando al termine di un dibattito televisivo condotto con le armi di una faziosità iperbolica quanto già troppe volte vista dal vivo, la telecamera stringe sul volto affranto dell’avversario di Cetto, mentre le luci dello studio si spengono lentamente e tutti escono festanti.
Per il resto è tutto vuoto: i personaggi spudoratamente macchiettistici che circondano il nostro eroe, a mezza via tra Franco e Ciccio e la caricatura di Marlon Brando, la moglie starnazzante, incapace di essere anche solo la parodia di quel che dovrebbe essere, fino al guru barese che parla milanese (ma perché, dico io?), interpretato da uno spaesatissimo Rubini, inspiegabilmente costretto ad essere quello che non è, palesemente in imbarazzo in panni non suoi.

Insomma... una grande occasione sprecata.
E un gran peccato, perché Cetto funziona davvero bene, ma non riesce ad andare oltre il format modello “Zelig” (v. anche il recente strasuccesso di Checco Zalone, tanto visto quanto mal fatto), il che costringe ad amare riflessioni nostalgiche dei tempi che furono, quando Totò gridava “Vota Antonio, vota Antonio” e Alberto Sordi girava “Tutti dentro!” con una parrucca da fare impallidire quella di Cetto.
Ma noi vogliamo bene al cinema italiano, nonostante tutto, perciò faremo il tifo per Albanese a Berlino. E siamo sicuri che i tedeschi sapranno apprezzare meglio di noi quest’Italietta tutta spaghetti e mafia di paese di cui noi abbiam piene le tasche. E pure i coglioni.