lunedì 20 agosto 2007

Vendere la guerra

VENDERE LA GUERRA
La propaganda come arma d’inganno di massa
di Sheldon Rampton e John Stauber
Nuovi Mondi Media, 2004
pagg. 176, euro 16, ISBN 88-89091-00-2

“Vendere la guerra” è un libro che promette bene già dall’indice. Scritto a quattro mani da due paladini della verità mediatica quali Sheldon Rampton e John Stauber, da anni impegnati sul fronte della lotta alla mistificazione dell’informazione, mostra con evidenza a tratti folgorante come sia possibile, nell’era della comunicazione globale, creare nel mondo intero un’opinione infondata e darle peso eguale a quello che si dà di norma all’evidenza. Sia chiaro: “L’offuscamento dei confini tra la verità e il mito non è certamente iniziato con l’Amministrazione Bush. La disinformazione ha fatto parte della guerra almeno dai giorni di Alessandro Magno”, e anche senza correre così indietro nel tempo, le due guerre mondiali offrono numerosi esempi di uso massiccio della propaganda. Ai nostri tempi, tuttavia, la questione presenta diversi aspetti oggettivamente preoccupanti, che Rampton e Stauber sono molto bravi a sottolineare. In primis, il coinvolgimento della macchina mediatica nel sostegno all’azione militare ha assunto proporzioni difficili anche solo da immaginare in passato. Charlotte Beers, ex-amministratore delegato delle agenzie pubblicitarie J. Walter Thompson e Ogilvy & Mather, John W. Rendon, del Rendon Group, Dawid Winne-Morgan, della Hill & Knowlton, Jamie Gallagher, del Gallagher Group, sono solo alcuni dei numerosissimi guru delle pubbliche relazioni assoldati ora per questa ora per quella azione di convincimento dell’opinione pubblica mondiale. La misura delle risorse impegnate è ben resa dal compenso ricevuto dalla Hill & Knowlton per la campagna a favore dell’intervento militare in Kuwait nel 1990: oltre 10 milioni di dollari. Per l’occasione, “119 funzionari della H&K dislocati in 12 uffici in tutti gli Stati Uniti lavoravano per conto del Kuwait. L’agenzia organizzò le interviste agli esponenti kuwaitiani, la celebrazione del ‘Giorno di liberazione nazionale del Kuwait’, e altre manifestazioni pubbliche, la distribuzione di notizie e kit informativi, e collaborò alla diffusione presso giornalisti influenti e l’esercito USA di oltre 200.000 copie di una mini guida di 154 pagine sulle atrocità compiute dall’Iraq, intitolata The rape of Kuwait ”. Quale lo scopo di tutto questo dispendio di energie? Creare menzogne grazie alle quali fare leva sull’opinione pubblica e diffonderle ripetutamente attraverso tutti i canali informativi al punto di farle accettare come vere. Il capolavoro dell’agenzia, in quella occasione, fu la testimonianza di Nayirah, una ragazzina kuwaitiana di 15 anni che affermò di aver visto i soldati iracheni strappare i bambini nati prematuri dalle incubatrici e lasciarli in terra a morire. La dichiarazione venne fatta propria dall’Assemblea del Congresso USA per diritti umani ed ebbe enorme risonanza in tutto il Paese e nel mondo, contribuendo a dare vigore al consenso dell’opinione pubblica all’intervento militare in Kuwait. Nessuno rivelò tuttavia che la bimba era la figlia di un membro della famiglia reale kuwaitiana, ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti, e che il vice-presidente della Hill & Knowlton, Lauri Fitz-Pegado, si era presa la briga di istruire di persona la piccola su quel che avrebbe dovuto dire. Ma il racconto di Nayirah sulle incubatrici è soltanto una delle mille bugie vendute al mondo, e a ben vedere una delle più innocue in fatto di conseguenze. Che dire infatti delle fantomatiche armi chimiche e addirittura nucleari dell’Iraq che ne facevano un pericolo mortale per l’intero pianeta? E dei presunti contatti con al Qaeda e il terrorismo globale? Secondo il rapporto sul terrorismo del Dipartimento di Stato diffuso nel maggio 2002, il ruolo dell’Iraq come sponsor del terrorismo era dimostrato dall’essere l’Iraq stesso “l’unico paese arabo-islamico a non aver condannato gli attentati dell’11 settembre contro gli Stati Uniti”, oltre ad aver ospitato esponenti dell’Intifada palestinese, del PKK curdo e del Mujaedin-e-Khalq. Lo stesso rapporto, tesseva le lodi di alleati come l’Arabia Saudita, affermando che “hanno interpretato un ruolo decisivo nella coalizione internazionale contro il terrorismo”. “L’ironia di tutto questo”, fanno notare Rampton e Stauber, è che 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre erano di nazionalità saudita, e che i collegamenti tra il regime saudita e al Qaeda sono molto più facilmente rintracciabili di quelli tra l’Iraq e al Qaeda”, sui quali esistono invece ragionevoli dubbi e nessuna prova certa. Del resto, la risposta del vice segretario alla difesa Paul Wolfowitz al giornalista Robert Collier che l’interrogava sulla presenza di prove convincenti di un tale collegamento è quanto mai eloquente: “Gran parte delle informazioni sono riservate e non posso proprio parlarne. […] Il punto è, e credo che sia fondamentale, che il presupposto alla sua domanda sembra quello di ottenere prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Credo che il presupposto politico sia invece che non possiamo permetterci di aspettare di ottenere prove oltre ogni ragionevole dubbio.”. Ed ecco che, sulla linea che di prove basta averne e poco importa che siano ragionevolmente credibili, si arriva al caso del dossier britannico citato dal Segretario di Stato USA Colin Powell nella sua requisitoria di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 5 febbraio 2003, intitolato “Iraq: le sue infrastrutture di copertura, menzogna e intimidazione” e successivamente rivelatosi un collage di notizie scopiazzate qua e là su internet e in buona parte provenienti da fonti incerte o risalenti a una decina d’anni prima. Ridicolo, se non fosse che su queste basi si muovono guerre.
Laddove non si arriva alla menzogna pura e semplice, è d’uso comune quello che Rampton e Stauber chiamano doublespeak (linguaggio doppio) fondendo due neologismi coniati da George Orwell nel suo 1984: doublethink (bi-pensiero), ossia pensiero contraddittorio, mediante il quale esprimere l’opposto di ciò che si pensa, e newspeak (neolingua), ovvero una lingua fatta di “termini che, pur non avendo sempre implicazioni politiche, impongono l’attitudine mentale desiderata a chi li utilizza” . Ne sono esempi più o meno evidenti l’uso di espressioni quali “asse del male”, per indicare una compagine di paesi ritenuti nemici (e perciò identificati con il male) e tutt’altro che uniti (come suggerisce la parola asse, che evoca invece l’asse italo-tedesco della seconda guerra mondiale) , contrapposto alla “coalizione del bene”. O ancora “disarmo dell’Iraq” (anziché “conquista” o “invasione”), “guerra di pace” (che è una palese contraddizione in termini), “deterrente nucleare USA” (che per gli altri stati si chiama “armamento nucleare” o “armi di distruzione di massa”) , ecc.
Il fondamento di questo nuovo modo di “vendere la guerra” è un pericoloso e alquanto inquietante uso della paura. “La propaganda mira spesso a convincere le persone a fare qualcosa che non sia nel loro interesse”, pertanto, soprattutto in democrazia, dove il sistema stesso di governo è costruito sull’idea che “la gente” sia in grado di autogestirsi razionalmente, è necessario aggirare completamente la ragione “manipolando il pensiero a un livello più primitivo, mediante il simbolismo emozionale”. E la paura è una delle emozioni più primitive e forti della psiche.
Sia chiaro, anche in questo caso l’usanza di “spaventare” il nemico non è certo una novità, ma la paura veniva in passato principalmente utilizzata come “tattica secondaria”, in guerre il cui fine ultimo era “conquistare o distruggere il territorio, le armi, le risorse e le capacità fisiche del nemico da combattere”. Oggi la paura è da un lato l’elemento fondante del terrorismo, ultima arma di chi non è in grado, per disparità di mezzi, di affrontare il nemico in uno scontro diretto, e, dall’altro, la motivazione per giustificare il restringimento delle libertà civili e addirittura la leva sulla quale viene costruita la necessità di muovere una guerra definita per l’appunto “preventiva”.
Ma se la propaganda s’impadronisce dei media, che ne è dell’informazione? “I notiziari offrono due servizi fondamentali alle persone che cercano di comprendere il mondo: la raccolta e il filtraggio delle informazioni. A chi cerca di cambiare il mondo, i media forniscono un terzo servizio essenziale: la pubblicità. Attualmente la raccolta delle informazioni è stata rimpiazzata in misura significativa da internet, dove è ormai possibile acquisire istantaneamente informazioni e opinioni su una vasta gamma di argomenti, mediante una serie praticamente infinita di fonti. Il filtraggio di tutta questa informazione è divenuto invece più necessario che mai”, dal momento che “ogni canale d’informazione filtra le notizie secondo una serie di priorità e inclinazioni non sempre svelte al pubblico”. Il commento dell’esperto libanese di scienze politiche Rami G. Khouri, autore di un’indagine condotta durante la guerra in Irak sulle TV sia arabe che americane, è significativo: “la diffusione e l’interpretazione dell’informazione sulla guerra è stata trasformata in un’accozzaglia di tifoseria irrazionale, in un’espressione primitiva delle identità nazionali e tribali, in una palese manipolazione ideologica da parte dei governi e in un volgare arruffianamento delle masse”. Difficile aggiungere altro.